DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXVII SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI
STORICI
Campidoglio, 21-22 aprile 2016
S.E. Mons. Agostino
Marchetto
Segretario Emerito del Pontificio Consiglio
della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti
Città del Vaticano
MIGRAZIONI. FATTORI DI CONFLITTO O DI PACE?
Sommario: 1. Pastorale della mobilità
umana, fenomeno strutturale. – 2. Nuovi parametri e governance del fenomeno. – 3. L’atteggiamento di chi arriva e la capacità di accettarne
la presenza. – 4. La metodologia che la
dimensione religiosa adotta e lotta alla povertà.
– 5. Almeno una capacità di convivenza.
– 6. Una sfida senza
precedenti per gli Stati e le Organizzazioni Internazionali.
– 7. La dimensione
religiosa e il rispetto della dignità umana per la pace.
È possibile che le migrazioni possano favorire il superamento dei
conflitti, l’incontro tra le
civiltà, come pure il dialogo fra le diverse esperienze
religiose, fra concezioni e modi di vita differenti? Questo interrogativo tocca
direttamente la prospettiva religiosa che si muove di fronte alle nuove
realtà di società dimensionate sulla coesistenza tra
identità molteplici, frutto di un mondo in cui la mobilità umana
è fenomeno strutturale e non occasionale, fenomeno di fronte al quale si
pone ormai l’urgenza di offrire testimonianza,
assistenza e solidarietà. La dimensione religiosa – e, alla luce
di fatti e pronunciamenti, penso qui di interpretare non solo quella della
Chiesa cattolica – si trova, dunque, impegnata almeno ad affrontare
coerentemente esigenze molteplici, a concorrere nella risoluzione di crisi e di
destabilizzazioni che, spesso con superficialità, portano a guardare al
fenomeno migratorio con un certo sospetto, quale fattore di incertezza e di
conflitto.
Un’attenzione positiva, direi, che vuole principalmente educare a
superare mentalità ed azioni che nascondono un rifiuto dell’altro o si riducono alla sua esclusione,
fino a più ampie limitazioni di diritti e libertà o ad
ingiustificate criminalizzazioni nei confronti di coloro che spinti dai motivi
più diversi lasciano la terra di origine per installarsi in un altro
Paese. Per la Chiesa cattolica questo significa cura pastorale, inserita in
quella più ampia azione di accoglienza e di amore verso l’altro
che è propria dell’impegno della comunità dei battezzati,
ma è anche motivo di elevare la voce perché mai sia dimenticata
la giustizia intesa come rispetto dei
diritti della persona e non solo applicazione di misure legislative,
così da porre le basi per una convivenza pacifica e duratura[1].
Posso garantire – chi vi parla ha acquisito in questi anni una diretta
esperienza delle situazioni e delle azioni conseguenti – che si tratta di
un approccio non privo di difficoltà, ma concretamente di un apporto
positivo a fronte di un fenomeno a dir poco complesso.
Infatti, lo sguardo rivolto alle dinamiche della popolazione in termini di
crescita, ma anche alle situazioni di conflitto, alla richiesta di un tenore di
vita dignitoso, alla garanzia per l’esercizio di diritti fondamentali,
evidenzia il dato che oggi circa 200 milioni di persone, quasi il 3 per cento
della popolazione mondiale, lascia la propria terra di origine, in genere per
spostarsi verso le aree a più ampio livello di sviluppo[2].
Si tratta, per altro, di un fenomeno che gli studi più accreditati
svolti da Istituzioni intergovernative determinano in crescita[3]
che comporta immediatamente – e spesso in modo drammatico – la
necessaria disponibilità a praticare atteggiamenti di comprensione,
assistenza, solidarietà da esprimere non solo come richiamo teorico, ma
attraverso gli strumenti della politica, del diritto e delle più
complesse attività istituzionali realizzate da organi statali o dalle
istanze della Comunità internazionale.
Soprattutto quello che può cogliersi è ormai l’aperta
ricerca di nuovi parametri di ordine
culturale e quindi legislativo da indicare quali principi di base nella
gestione, nelle scelte, nella governance e
nel più specifico livello decisionale (decision making) che riguarda il fenomeno migratorio. Problemi che
toccano non solo i singoli Paesi, ma altresì la dimensione
internazionale, le regole, le istituzioni, le strategie di intervento, e questo
proprio nella prospettiva di una coesistenza pacifica strutturata secondo
quella sussidiarietà di apporti che coinvolge persone, società e
Stati.
Sussidiarietà che include certamente la dimensione religiosa, pur
rispettandone la specificità che, pur non confondendosi con gli
indirizzi politico-sociali, il momento legislativo e normativo o le decisioni
in economia, è chiamata ad individuare le principali questioni con le
quali, sia a livello particolare che nella dimensione internazionale, deve
confrontarsi.
Di qui l’attenta considerazione al legame – vero e proprio
rapporto causa-effetto alla luce dei dati – tra le migrazioni e il
divario tra il Nord e il Sud del mondo. Un divario netto, evidente
altresì in termini demografici oltre che strutturali, economici e di
programmazione dello sviluppo, che motiva in larga misura i flussi migratori,
giungendo finanche a farli ritenere ancora “limitati” rispetto
all’effettivo potenziale determinato, tra l’altro,
dall’aggravarsi delle condizioni di povertà, dal desiderio di
migliori condizioni di vita, dall’attrattiva
che quanti già immigrati rappresentano e, non ultimo, da una più
facile fruibilità e disponibilità delle comunicazioni.
Un’altra situazione è quella che la
migrazione determina nei Paesi di ingresso o di primo stabilimento e in quelli
di destinazione ultima, nei quali si confrontano l’attitudine di chi
arriva nel rendersi disponibile verso i cardini delle società che lo
accolgono, dall’altro la capacità o la volontà del corpo
sociale di accettare la presenza di immigrati. Un confronto che non si
esaurisce nei temi del lavoro, dell’accesso ai servizi, della
legalità o illegalità, ma si allarga a considerare la compatibilità
di valori e regole che spesso neppure la presenza di più generazioni
di immigrati riesce a gestire in modo pacifico.
Di fronte a queste situazioni l’intervento
a cui sono chiamate le religioni non è facile, se non la si vuole
ridurre alla sola denuncia o ad una mediazione. Si tratta, infatti, di
concorrere a determinare le condizioni di sviluppo, e quindi le politiche di
cooperazione come «occasione di incontro culturale ed umano»[4],
come pure di sostenere da un lato i valori e le regole di chi arriva,
dall’altro il patrimonio di chi accoglie, operando per «salvaguardare le
esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo
stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati»[5].
Diventa cruciale la metodologia che la dimensione
religiosa adotta nella sua azione: gestire tutto in funzione di un ruolo
sociale prevalente o avere un proprio progetto migratorio – religioso,
cultuale e quindi sociale e culturale –, quasi un fattore di stabilizzazione
sociale? Fattore a cui si legano capacità di dialogo e condivisione
del bene della persona che è poi l’obiettivo ultimo.
In una realtà globalizzata o interdipendente, le tendenze che su
scala internazionale si registrano sul versante delle migrazioni e le
prospettive geografiche e politiche che derivano dai diversi aspetti del
fenomeno, evidenziano uno stretto legame con la globalizzazione, la
liberalizzazione dei flussi commerciali, come pure con l’integrazione
economica in aree specifiche. E si tratta di fattori che se, da un lato, incoraggiano
la mobilità umana anzitutto sul piano lavorativo – come si
è visto alimentata da un crescente divario negli standard di vita fra
Paesi poveri e ricchi e da una diversa realtà demografica – ,
dall’altra si legano ad alcuni indicatori di controllo, vere e proprie
misure finalizzate a regolare i flussi migratori, ad arginarli o addirittura ad
erigere barriere. Il pericolo di conflitti che da tali pratiche possono
esplodere, e spesso in modo drammatico, non è da escludersi, con un
allontanamento della stabilità e del possibile dialogo, limitato al
confronto.
Sono diverse le analisi che considerano le migrazioni, e meglio si direbbe
i migranti, come costruttori di una rete di rapporti e di scambi che vanno
oltre le dimensioni nazionali, quasi elementi privilegiati per superare i
conflitti e favorire la costruzione di rapporti tra Paesi, culture ed aree
differenti. In modi diversi, il migrante in sostanza è visto come un
potenziale strumento di crescita e beneficio sia per le aree di origine, sia
per quelle di approdo. Tralascio altre argomentazioni per riferirmi
immediatamente al trasferimento di risorse, non solo economiche, professionali
e umane che i migranti favoriscono verso il loro Paese di provenienza, come
pure per quello di arrivo quando suppliscono alle lacune di forza lavoro o di
offerta di servizi, o più ampiamente rispondono ad un’inadeguata
crescita della popolazione. Qualche anno or sono, la Banca Mondiale[6] ha
indicato che il numero crescente di
migranti nel mondo con la loro produttività e i loro guadagni
costituisce uno strumento appropriato per le strategie di lotta alla
povertà e di riduzione del sottosviluppo che restano quanto mai
complesse. L’approccio specifico di quell’intervento della Banca
Mondiale era rivolto alle rimesse degli immigrati considerate
un’importante via d’uscita dall’estrema povertà. Un
approccio confermato dall’analisi sulla crisi finanziaria ed economica
che dal 2007 viviamo in dimensione globale, dal quale emerge che per la gran
parte dei Paesi in via di sviluppo la diminuzione delle rimesse degli immigrati
ha significato un generale abbassamento della condizione economica e degli
standard di vita[7], iniziando dal mancato soddisfacimento dei bisogni
primari: alimentazione, cure mediche, alfabetizzazione, per richiamarne alcuni.
Un esempio che non richiede commenti di
sorta, ma che consente di cogliere pienamente, insieme ai potenziali vantaggi
economici del fenomeno migratorio, le implicazioni sociali e politiche ad essa
associate. Implicazioni da cui non sono estranei atteggiamenti che pongono le
migrazioni all’origine di sentimenti contrastati, di risentimento da
parte della popolazione dei Paesi di approdo, specie quando la coabitazione
diviene difficile per differenze etniche, linguistiche, culturali e religiose.
In questi casi anche l’apporto positivo che le migrazioni donano al mondo
del lavoro genera dissidi: il migrante diventa colui che sottrae occupazione,
determina una concorrenza sleale nei livelli salariali, spinge per un maggiore
spostamento di risorse verso la spesa sociale.
Sono costanti le immagini che presentano i migranti solo come causa di
conflitto quando ad essere messi in discussione sono i valori cardine della
convivenza, quella costituzione materiale che è posta alla base del
vivere sociale. Situazioni da cui la dimensione religiosa non può
estraniarsi. La Chiesa cattolica, ad esempio, si espone direttamente sul terreno
con le sue strutture pastorali e la sua specificità di intervento che,
nell’impossibilità di una piena integrazione, opera perché
almeno si determini una capacità
di convivere «attraverso una prassi di rispetto reciproco delle
persone e di accettazione o tolleranza dei differenti costumi»[8].
Le circostanze or ora richiamate, in ragione delle cause che le
determinano, non possono essere ignorate da una prospettiva di azione da parte
della dimensione religiosa la cui efficacia, però, dipende dal modo di
considerare la complessità della gestione dei flussi migratori. Questi,
infatti, pongono ai singoli Stati una sfida senza precedenti, come pure
determinano un necessario coinvolgimento delle Organizzazioni internazionali
alle quali si chiede di predisporre strumenti normativi uniformi ed armonizzati
o almeno in grado di far convergere approcci diversi e che, se privi del
necessario coordinamento, risulterebbero inefficaci[9].
Segno evidente che le risposte tradizionalmente fornite, in genere mediante un
approccio limitato a singole situazioni, risultano spesso inadeguate. E questo
anche se le cause ultime del fenomeno migratorio e l’interazione tra i
fattori che incidono sulla migrazione ordinata (temporanea o permanente)
riportano esempi di gestione efficacemente realizzata da Governi ed Istituzioni
internazionali. Lo testimoniano gli sforzi di integrazione dei migranti nelle
società di accoglienza, i programmi di reintegrazione nei Paesi di origine
accompagnati da indicazioni di sostenibilità e, in particolare, la
ricerca di criteri per garantire i diritti fondamentalissimi (core rights)
che appartengono al migrante in quanto persona qualunque sia la sua
condizione rispetto alle normative di accoglienza.
Alla dimensione religiosa, poi, non sfugge l’atteggiamento di un
numero sempre crescente di Paesi che optano nell’adottare politiche e
strumenti normativi che hanno un approccio a più dimensioni per la
gestione delle migrazioni, volto a ridurre forme di irregolarità, di
spostamenti e tralasciando invece quella necessaria azione preventiva o almeno
volta a ridurre abusi nei confronti dei migranti. Fenomeno, quest’ultimo,
che desta grande preoccupazione se si pensa alla tratta di esseri umani (trafficking)
o all’industria legata all’introduzione irregolare di migranti (smuggling),
la cui consistenza appare crescente pur in presenza di articolate legislazioni
e strategie di contrasto.
Abbiamo parlato di complessità e di necessità di azioni
coordinate a cui la dimensione religiosa concorre, e vuole continuare a farlo,
sapendo che alle azioni in questa direzione fanno da sfondo i complessi
dibattiti sulla connessione fra fenomeno migratorio, livelli di sviluppo,
negoziati e strategie per ridurre la povertà. Ma – e qui entra un
passaggio specifico – anche le questioni che condizionano quel necessario
dialogo fanno sì che esso non sia più confinabile al solo
incontro tra differenti civilizzazioni, ma contraddistingua l’apporto delle religioni alle
istituzioni, alla società civile ed alle sue forme di organizzazione,
nei processi educativi e di formazione che del dialogo sono certo il
fondamento.
Prospettive e soluzioni rimangono, dunque, affidate a politiche e normative
che saranno tanto più efficaci quanto più rispetteranno la
dignità umana nella gestione delle migrazioni, e capaci di favorire
politiche e strategie conseguenti basate su larghi consensi, frutto di
un’ampia convergenza riversata negli strumenti che favoriscono
l’eliminazione dei conflitti, la cooperazione, la stabilità,
obiettivi dell’ordine politico interno e di quello della Comunità
internazionale, in una parola la pace.
L’elemento
religioso, che si è visto composito ed attento ai fatti, diventa allora
un essenziale fattore per una comune visione di governance delle migrazioni (cfr. Caritas in veritate, 62.67) e quindi della situazione dei migranti
verso i quali sono chiamati ad operare molteplici soggetti, responsabili o
almeno coinvolti. Una visione fondata sul valore della reciprocità e
della comunione tra persone, Stati, Istituzioni internazionali, in grado di
rimuovere rigide posizioni e garantire scelte per l’immigrazione dove non
prevalgono solo prospettive legate alla sicurezza e al profilo economico, ma
pure una dimensione sociale, culturale e, non ultima, religiosa capace di
esprimersi attraverso lo strumento legislativo garante di diritti e di doveri.
Sicurezza legata altresì al benessere dei migranti, volta a contemperare
limiti all’ingresso e libertà di movimento, ma soprattutto
strumento a favorire una relazione non solo interculturale, ma anche
intergenerazionale.
È quanto
richiede l’uguaglianza dell’umana natura e il rispetto della
dignità di ogni essere umano. Per la Chiesa cattolica questo significa
che «l’attenzione al Vangelo si fa così anche attenzione
alle persone, alla loro dignità e libertà. Promuoverle nella loro
integrità esige impegno di fraternità, solidarietà,
servizio e giustizia»[10],
per quel bene universale che chiamiamo pace.
[Un evento culturale, in quanto ampiamente
pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente
anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di
questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in
chiaro” dal Comitato promotore del XXXVI Seminario internazionale di
studi storici “Da Roma alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità di ricerca
‘Giorgio La Pira’ del CNR
e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia, con
la collaborazione della ‘Sapienza’
Università di Roma, sul tema: MIGRAZIONI, IMPERO E CITTÀ DA
ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] Questo approccio
è stato approfondito nell’Istruzione Erga migrantes caritas Christi (EMCC) emanata nel 2004 dal Pontificio
Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, che
individua le linee della cosiddetta “pastorale di accoglienza”, in
particolare nella Parte II (testo in Acta Apostolicae Sedis 96, 2004,
762 ss.).
[2] Per una completa
visione dei dati può farsi riferimento al rapporto dell’OECD, International Migration Outlook 2009,
Paris 2009.
[3] Un’interessante
proiezione per il periodo 2010-2050 è contenuta in United Nations-Economic and Social Affairs
Department, World Population
Prospects. The 2008 Revision, New York 2009, 38 s.
[4] Benedetto XVI, Enciclica Caritas
in Veritate, 59.
[5] Ibid., 62. Su questo punto l’enciclica rinvia alla
menzionata Istruzione Erga migrantes
caritas Christi.
[6] Il riferimento
è al rapporto World Bank, Global
Economic Prospects 2006. Economic Implications of
Remittances and Migration, Washington, 2006.
[7] Cfr. World Bank, Global Economic
Prospects 2010. Crisis, Finance, and Growth, Washington 2010, 37 ss.
[8] EMCC, 2.
[9] La questione
è posta in modo esplicito per le forme di Organizzazione internazionale
di tipo sovranazionale o integrato, come è il caso dell’Unione
Europea o, sia pur con più limitata capacità, dell’Unione
Africana e del Mercosur.
[10] EMCC, 36.